Lu rusciu de lu mare*
Na sira ieu passai de li paduli
e ‘ntisi le cranocchiule cantare.
A una a una ieu le sintìa cantare
ca me pariane lu rusciu de lu mare.
Lu rusciu de lu mare è mutu forte
la fija de lu rre se dae alla morte.
Iddha se dae alla morte e ieu alla vita
la fija de lu rre sta sse mmarita.
Iddha sta sse mmarita e ieu me ‘nzuru**
la fija de lu rre me dae nu fiuru.
Iddha me dae nu fiuru e ieu na parma
la fija de lu rre se ‘ndae alla Spagna.
Iddha se ‘ndae alla Spagna e ieu in Turchia
la fija de lu rre è la zzita mia.
E vola, vola, vola colomba vola
e vola, vola, vola colomba mia
ca ieu lu core meu
ca ieu lu core meu
ca ieu lu core meu te l’addhru dare.
Il rumore del mare
Un giorno andai a caccia per le paludi
e udii le ranocchie cantare.
A una a una le sentivo cantare
che mi sembravano il rumore del mare.
Il rumore del mare è molto forte
la figlia del re si dà alla morte.
Ella si dà alla morte e io alla vita
la figlia del re si sta maritando.
Ella si sta maritando e io mi sposo
la figlia del re mi porta un fiore.
Ella mi porta un fiore e io una palma
la figlia del re se ne va in Spagna.
Ella se ne va in Spagna e io un Turchia
la figlia del re è la fidanzata mia.
E vola vola, vola, colomba vola
e vola vola, vola, colomba mia
che io il cuore mio te le devo dare
che io il cuore mio te le devo dare.
*Nelle diverse versioni può cambiare il modo di scrivere le parole e la loro pronuncia, a seconda della zona e del dialetto locale.
**Dal sito Dialetto salentino e dintorni: Il termine ‘nzurarsi (sposarsi), sinonimo di maritarsi, si presume derivi dal latino volgare inuxorāre, derivato dal latino uxor (moglie), e si utilizza soprattutto in riferimento a un uomo che prende moglie.
Raccontare le proprie radici
Ho cercato di spiegare il significato di questa canzone popolare salentina per la prima volta a un mio amico sardo, mentre entrambi vivevamo nella Bassa padana.
Io e Massimo ci siamo incontrati nell’edificio grigio di un’azienda lodigiana circondata da campi di granoturco, neve o cimici a seconda della stagione, e ci siamo riconosciuti subito: lui aveva negli occhi l’arte, il silenzio e le strade tortuose della sua isola; io cercavo disperatamente persone con cui poter parlare di vento e di mare, perché il vento e il mare non li vedevo per mesi interi.
Prima delle nostre persone, forse sono state le nostre culture a incontrarsi e a emergere con forza dall’angolo buio in cui le avevamo relegate per non sentirci troppo fuori posto in un luogo a cui non saremmo mai appartenuti. Eravamo lì per scelte fatte in un modo che all’apparenza risultava razionale, anche se in fondo sentivamo la costrizione di un percorso punitivo, che avevamo inflitto a noi stessi per non aver avuto il coraggio di prendere in mano la nostra vita quando era arrivato il momento di farlo, o perché eravamo fuggiti proprio di fronte alle scelte decisive.
Allora abbiamo iniziato a conoscerci e a raccontare le radici, la Puglia e la Sardegna, in uno scambio che – adesso lo capisco – era un tentativo per non perdersi in un’identità indefinita: sembrava avessimo paura di far scomparire i luoghi in cui eravamo cresciuti se non fossimo stati in grado di mantenerli vivi, prima nei nostri ricordi e poi attraverso le parole, perché quei luoghi ci definivano, anche se in quella fase delle nostre vite erano così lontani da noi.
Massimo raccontava i colori e le forme dell’arte sarda, io provavo a descrivergli l’anima del Salento e le sue inquietudini, le stesse che mi portavo appresso in ogni trasferimento come un bagaglio mai disfatto. In una delle mie descrizioni mi ricordai della canzone Lu rusciu de lu mare, credo sia sempre stata la mia preferita.
Una canzone salentina e i suoi simboli
In quegli anni il turismo di massa In Puglia era già iniziato, la cultura salentina aveva intrapreso il suo percorso di mercificazione, e non era raro ascoltare quella canzone risuonare dai palchi delle affollate sagre estive. Sapevo che Massimo poteva andare oltre: la sua anima così sensibile verso l’arte avrebbe colto il non udibile, quel sentimento di identificazione e appartenenza tanto prezioso quanto fragile, che può nascondersi anche in una canzone che fino a non molti anni prima era poco conosciuta.
Lu rusciu te lu mare, come tante altre tradizioni popolari, è stata smarrita, poi ritrovata e rimaneggiata, ma non per questo ha perso la sua forza evocativa. È stato Luigi Cardigliano, originario di Ugento, a farla rivivere nel 1978, mentre si trovava a Firenze insieme a un gruppo di studenti che condividevano le proprie tradizioni suonando e cantando nel centro del capoluogo toscano. Si tratta di un canto antico della tradizione gallipolina.
Il testo parla dell’amore impossibile tra un soldato e una nobildonna figlia di re, ma per me le emozioni iniziano già con il titolo e con l’apertura del testo, perché chi cresce sul mare riconosce le sensazioni associate a questo elemento della natura così potente, anche quando sono evocate da una sola parola onomatopeica, semplice e fluida come le onde: lu rusciu.
Sebbene a rusciu venga associato il significato di “rumore”, i suoni prodotti dall’accostamento delle lettere ne ampliano il senso, e il testo della canzone lo fa percepire pur senza spiegarlo in maniera esplicita: lu rusciu è una musica che smuove i ricordi, una connessione tra il mare e l’anima.
È sera, e un semplice soldato che appartiene al popolo sta camminando da solo in una zona paludosa quando sente il gracidare notturno delle ranocchie, che gli ricorda il rumore del mare.
Mentre è immerso nei suoi pensieri la forza di quel suono gli riporta alla mente la sua angoscia: la figlia del re, di cui è innamorato, sta per andare in sposa a qualcun altro, di sicuro un uomo del suo rango.
In alcune interpretazioni la figlia del re si “dà alla morte” e si uccide: io ho raccontato a Massimo che per me ciò che muore è la sua libertà di vivere e stare accanto all’uomo che ama, a prescindere dalle regole sociali, è la rappresentazione dei doveri e dell’impotenza femminile di fronte a un matrimonio combinato per interessi. Neanche il soldato può stare accanto alla sua fidanzata, ma lui “si dà alla vita”, si sposa per scelta e continua nella sua libertà di uomo.
Il riferimento alla Spagna e alla Turchia raccontano le battaglie per il dominio su una terra da sempre meta di conquiste.
Nell’ultimo incontro i due amanti si scambiano un fiore e una palma, e il soldato saluterà la sua fidanzata con la promessa di donarle il suo cuore.
Il mare all’inizio è solo una sensazione sonora, poi la storia prende forma e si intuisce che l’orizzonte blu diventerà il simbolo della lontananza e della separazione definitiva, un limite che non potrà mai essere superato.
Le prime versioni di questa canzone hanno un ritmo lento e richiamano la cantilena triste di chi si abbandona alla rassegnazione; io ascolto spesso la versione più energica del gruppo musicale Alla Bua, che trasmette la forza di un grido di disperazione e si anima del ritmo tipico della pizzica, con il suo potere di trascinarci in un vortice di sensazioni.
Il ritorno alla propria terra
Ho raccontato questa mia lettura de Lu rusciu de lu mare al mio amico sardo nel 2008, in un periodo in cui vivevo lontano dalla mia terra, quando entrambi sognavamo di andare via e di concludere quel percorso in cui sentivamo forte il potere della solitudine.
Penso che ogni persona che incontriamo in qualche modo abbia un messaggio per noi: quando ho conosciuto Massimo, in un luogo che ritenevo inospitale, ho iniziato a capire che volevo circondarmi della bellezza a me cara.
Con i racconti e le nostre chiacchierate io e Massimo siamo riusciti a mantenere vivo il ricordo delle nostre radici, abbiamo lottato per trovare la nostra strada nonostante la perenne sensazione di aver sbagliato molte volte, e siamo tornati dove potevamo trovare ciò che ci mancava per sentirci completi, ognuno nella sua terra.
Quando ascolto Lu rusciu de lu mare non posso fare a meno di ripensare a tutto questo: alla solitudine, ai percorsi tortuosi, alla forza delle scelte controcorrente, alle amicizie che ci guidano, alla ricerca della bellezza.